IL TRIBUNALE

    Letti gli atti rileva quanto segue.
    Con  distinti  ricorsi,  poi  riuniti  attesa  la identita' delle
questioni dedotte, gli attori premesso:
        1) che    lavorano    presso    lo   stabilimento   Italsider
Genova-Cornigliano, in cui si sono succedute, quali datori di lavoro,
diverse societa' ultima delle quali, a decorrere dal 17 gennaio 1998,
la Ilva S.p.A;
        2) che dal giorno 11 marzo 1996 la rilevazione degli orari di
lavoro   avviene   attraverso  un  sistema  di  terminali  marcatempo
installati  nei  vari  reparti,  e  non piu', come invece avveniva in
precedenza,  presso  i  tre  varchi di accesso allo stabilimento, nel
quali  il  personale  inseriva  il  proprio  cartellino  segna orario
effettuandone la timbratura;
        3)  che  dal  momento  in  cui  entrano nello stabilimento al
momento  in  cui  timbrano  il  cartellino  segna  orario  in entrata
impiegano nelle diverse operazioni (inclusa la vestizione della tuta)
mediamente  20  minuti; ed inversamente compiono analoghe operazioni,
per  la medesima durata, dal momento in cui timbrano il cartellino in
uscita a quello in cui escono effettivamente dallo stabilimento.
    Tutto  cio'  premesso  convengono  in  giudizio  Ilva  S.p.A. per
sentirla  condannare  al  pagamento in loro favore delle retribuzioni
spettanti  a titolo di lavoro straordinario per i tempi di cui sopra,
cosiddetti «tempi di percorrenza» e «tempi tuta».
    Si   costituisce   in   giudizio  l'Ilva  S.p.A.  contestando  la
fondatezza delle domande di cui chiede la reiezione.
    Tuttavia  l'Ilva  S.p.A.  non  contesta  le  circostanze di fatto
esposte  dalle  controparti,  vale  a dire non contesta gli accennati
«tempi  tuta» e «tempi di percorrenza», salva la loro quantificazione
che resta da accertare.
    La  materia  del  contendere e' quindi sintetizzabile come segue:
sono   computabili   nell'orario  di  lavoro  i  suddetti  «tempi  di
percorrenza» e «tempi tuta»?
    Ritiene  il  giudicante  che  la  risposta  positiva discenda dal
nostro ordinamento.
    Invero  la disciplina dell'orario di lavoro, contenuta in origine
nel r.d.l. n. 692/1923 e successivo regolamento, ha subito un duplice
intervento  correttivo,  anche per adeguarsi sotto diversi profili ai
parametri  comunitari:  il primo con la legge n. 196/1997, che tra le
altre  cose  ha  ridotto  a  40  le  ore  di lavoro ordinario su base
settimanale,  e che si esprime in termini di orario normale di lavoro
senza produrre effetti indiretti di revisione della nozione di lavoro
effettivo  di  cui  al  regio  decreto;  il  secondo  con  il  d.lgs.
n. 66/2003 che ha recepito in toto la definizione di orario di lavoro
offerta  dalla  direttiva  CEE  104/1993,  che coincide con qualsiasi
periodo  in cui il lavoratore e' al lavoro, a disposizione del datore
e nell'esercizio delle sue attivita' o funzioni.
    Appare  opportuno  rilevare che i fatti di causa sono interamente
riferibili  al  periodo di vigenza della legge del '97 che non ha, si
e'  visto, spostato il problema sulla definizione di orario di lavoro
rispetto alla disciplina previgente.
    Il  regio  decreto n. 692/1923 all'art. 3 nel computare la durata
massima   della   giornata   e   della   settimana  lavorativa  parla
espressamente  di  «lavoro  effettivo», ma usa tale espressione, come
emerge  dal  chiaro tenore letterale della norma, in contrapposizione
sia alla nozione di lavoro discontinuo, cioe' intramezzato da periodi
di pausa, sia alla nozione di semplice attesa e custodia; pertanto e'
compatibile  con  tale  espressione far rientrare nella nozione della
prestazione  lavorativa,  rilevante  ai  fini  dell'orario di lavoro,
attivita'  strettamente propedeutiche alla lavorazione tipica. E tale
esito  interpretativo appare fondato perche' pone la norma interna in
coerenza con il diritto comunitario e precisamente con i principi che
ispirano  la  giurisprudenza  della  Corte  di giustizia. La Corte ha
infatti  di  recente  (sentenza  9 settembre 2003, causa n. 151/2002)
confermato  l'orientamento  gia'  espresso in precedenti decisioni su
casi   analoghi  (vedi  Corte  di  giustizia  3 ottobre  2000,  causa
C-303/1998;   3 luglio   2001,   causa   C-241/1999).   Secondo  tale
orientamento  il  periodo dedicato al servizio di guardia, svolto dai
medici  assicurando  la  presenza  fisica  nel centro sanitario, deve
essere    interamente    considerato    come    orario    di   lavoro
indipendentemente dalla effettivita' delle prestazioni lavorative.
      Ne'  vale  obiettare, come fa la difesa della convenuta, che il
servizio  di  disponibilita' che i medici di guardia garantiscono con
la   loro   presenza  in  sede  sia  situazione  diversa  dalla  mera
percorrenza dall'ingresso di fabbrica al posto di lavoro e viceversa.
    La  obiezione  non  coglie  nel  segno  perche',  ad  avviso  del
giudicante,  e' estrapolabile dalla giurisprudenza comunitaria appena
citata  il  seguente  principio:  il  tempo  di presenza sul luogo di
lavoro,  ed  a  disposizione  del  datore  per  prestare  la  propria
attivita'  subordinata, rientra nell'orario di lavoro; e cio' perche'
tale  presenza,  ponendosi  come funzionale rispetto alla prestazione
tipica,  resta comunque assoggettata al potere direttivo e gerarchico
del datore.
    Nel   caso   in  esame  le  attivita'  svolte  nell'ambito  dello
stabilimento,  strettamente propedeutiche alla prestazione tipica (e'
bene sottolineare che gli attori chiedono il riconoscimento dei tempi
minimi  di percorrenza e vestizione ed il discorso vale specularmente
per  le  attivita'  dalla  timbratura  del  cartellino in uscita alla
uscita  effettiva  dallo  stabilimento) sono assoggettabili al potere
direttivo del datore di lavoro.
    Non  vale  opporre  che  tali  attivita'  non  siano  in concreto
soggette  a  specifiche direttive, poiche' in qualunque momento sulle
stesse   puo'   esercitarsi   il  potere  organizzativo  e  direttivo
imprenditoriale  (ad  esempio disporre orari di ingresso, percorsi da
osservare, mezzi da utilizzare).
    Fra  l'altro  una espressione del potere organizzativo del datore
di  lavoro,  pacifica in causa, si ravvisa nel fatto che i lavoratori
possono  servirsi  di  pullman  aziendali  per effettuare il tragitto
necessario per recarsi sulla postazione di lavoro: ecco una specifica
espressione del potere organizzativo del datore di lavoro.
    In  questo  ordine  di  idee  la  previsione dell'art 5 del regio
decreto  n. 1955/1923  secondo  cui  resta espressamente escluso, fra
l'altro,  il  tempo  impiegato  per  recarsi al posto di lavoro e' da
intendersi  come riferito al percorso dalla abitazione del lavoratore
all'ingresso dell'azienda, percorso sottratto ad ingerenze del datore
di  lavoro  (con  la  opportuna  precisazione che non e' cosi' per le
ipotesi  in  cui  il  viaggio  sia  intrinsecamente  connaturato alla
prestazione di lavoro).
    Tale  conclusione  trova  conferma  anche  nella  parte in cui il
cennato  articolo  aggiunge  che  nelle  miniere o cave la durata del
lavoro  si  computa  dall'entrata all'uscita del pozzo: quella fase -
tragitto  dalla  entrata  nel  pozzo  al  punto  in  cui  iniziano le
specifiche attivita' lavorative, e viceversa - rientra a pieno titolo
nell'attivita'   lavorativa   perche'   gia'   inerente   alla  sfera
organizzativo-imprenditoriale  del  datore  di  lavoro  e,  intesa in
questo  senso,  la  norma  si  pone  quale specifica applicazione del
principio rinvenibile nella giurisprudenza della Corte di giustizia.
    Osserva  la  difesa  della  convenuta che, alla luce dei principi
generali  dell'ordinamento, il debitore di una prestazione e' tenuto,
in  virtu'  della  buona fede esecutiva, a realizzare l'interesse del
creditore  non  solo  mediante la prestazione principale, ma altresi'
svolgendo  tutte  le  correlative  attivita'  di carattere accessorio
(quali  sarebbero  nel  caso  in  esame  la percorrenza dai varchi di
accesso  allo  stabilimento  alle  rispettive  postazioni  di lavoro,
nonche'  la  vestizione della tuta, e le attivita' inverse al termine
della  giornata  di  lavoro).  Tali attivita' integrando il contenuto
stesso dell'obbligazione non comporterebbero retribuzioni aggiuntive.
La osservazione e' corretta ma non pertinente al caso in esame in cui
i  ricorrenti  chiedono che le specificate attivita' accessorie siano
retribuite   non  perche'  esulano  dalla  obbligazione  dedotta  nel
contratto  di  lavoro,  ma  perche'  rese oltre l'orario ordinario di
lavoro.  Orario  ordinario,  e'  bene  ribadire,  calcolato,  come e'
pacifico  in  causa,  sulla  timbratura,  in  entrata  ed uscita, del
cartellino marcatempo.
    E'  opportuno sottolineare, tra l'altro, che l'opinione sostenuta
dalla resistente, volta ad escludere l'accezione lavorativa dei tempi
di  percorrenza  o  tempi  tuta, rischierebbe di vanificare la tutela
assicurata  dalla  normativa  in materia di orario massimo di lavoro,
laddove  le  prestazioni  propedeutiche  e  funzionali  all'attivita'
lavorativa  dovessero  per  consistenza  ed  onerosita' travalicare i
limiti  fissati  dal  Legislatore  (si  pensi  all'ipotesi  in cui la
percorrenza  dall'ingresso della fabbrica al posto di lavoro richieda
un'ora per l'andata ed un'ora per il ritorno).
    Infatti  tali  tempi  di percorrenza sono direttamente imputabili
alla  struttura  ed  organizzazione aziendale i cui costi, secondo un
principio pacifico, non possono essere messi a carico del lavoratore.
    A  questo  punto  va  richiamata la contrattazione collettiva del
settore.   Il   c.c.n.l.  del  9  luglio  1994,  prodotto  in  causa,
all'art. 5,  intestato  «orario di lavoro» dispone al comma 9 :« agli
effetti  del  presente articolo sono considerate ore di lavoro quelle
di  effettiva  prestazione...». Tale norma sembra escludere, come del
resto  sostiene  la  difesa  dell'Ilva,  che  il  tempo impiegato per
percorrere  il  tragitto  dai cancelli della fabbrica all'orologio di
reparto  sia  da  considerare  tempo  di  lavoro; come confermato dal
comma 6  del  medesimo  articolo  che  recita: «Le ore di lavoro sono
contate con l'orologio di stabilimento o reparto.».
    E  siffatta  disciplina,  ribadisce  la  difesa dell'Ilva, sembra
puntualmente  confermata dal successivo c.c.n.l., anch'esso prodotto,
il   quale   all'art. 3  dispone:  «L'entrata  dei  lavoratori  nello
stabilimento sara' regolata come segue:
        1)  il  primo segnale verra' dato 20 minuti prima dell'orario
fissato  per  l'inizio  del  lavoro;  a  questo  segnale sara' aperto
l'accesso allo stabilimento;
        2) il secondo segnale sara' dato cinque minuti prima dell'ora
fissata per l'inizio del lavoro;
        3)  il terzo segnale verra' dato all'ora precisa per l'inizio
del  lavoro;  a  questo  segnale il lavoratore dovra' trovarsi al suo
posto per iniziare il lavoro».
    In  questo  passo il contratto collettivo espressamente ribadisce
che  il  dipendente  inizia  il  lavoro  non prima del momento in cui
raggiunge la propria postazione.
    Le  richiamate  norme dettate dalla contrattazione collettiva del
settore  sull'orario di lavoro andrebbero quindi ritenute illegittime
per  contrasto  con  la disciplina legislativa sull'orario di lavoro,
disciplina come sopra ricostruita ed indubbiamente inderogabile.
    Lo  accertamento di siffatta illegittimita' costituisce questione
pregiudiziale  nell'iter logico che il giudicante deve percorrere per
pervenire  alla decisione della presente controversia. E, come emerge
dalle  pregresse  considerazioni, si tratta di questione connotata da
notevole complessita'.
    A  questo  punto  entrano in gioco, piu' oltre si vedra' come, le
seguenti norme:
        A) l'art. 2  del  d.lgs.  n. 40/2006 che, in parziale riforma
dell'art. 360  c.p.c.  (d'ora  in  poi  quando  si citera' l'art. 360
c.p.c. si fara' riferimento alla norma come recentemente modificata),
ha,  fra  l'altro,  disposto:  «Le  sentenze  pronunciate in grado di
appello  o  in  unico  grado  possono essere impugnate con ricorso in
Cassazione:  ............. 3)  per  violazione  o  falsa applicazione
...................dei  contratti  e  accordi collettivi nazionali di
lavoro...»;
        B) l'art. 18  del d.lgs. n. 40/2006, che, inserito nel codice
di   procedura   civile   l'art. 420-bis,   dispone  «Quando  per  la
definizione  di  una  controversia  di cui all'art. 409 e' necessario
risolvere   in   via   pregiudiziale  una  questione  concernente  la
efficacia,  la  validita'  o  l'interpretazione  delle clausole di un
contratto  o  accordo  collettivo  nazionale,  il  giudice decide con
sentenza  tale  questione,  impartendo  distinti provvedimenti per la
ulteriore  istruzione  o,  comunque,  per la prosecuzione della causa
fissando  una  successiva  udienza  in  data  non anteriore a novanta
giorni...».
    In  ordine alle norme sub A) e sub B) si prospetta, sotto diversi
profili,  una  questione  di illegittimita' costituzionale; questione
non manifestamente infondata e rilevante nel presente giudizio.
Non   manifesta   infondatezza   delle  questioni  di  illegittimita'
                           costituzionale
    La norma sub A) e' suscettibile di due diverse interpretazioni.
    Puo'  essere  intesa nel senso che non abbia mutato la natura del
contratto  collettivo  che,  nel  settore  privato,  resta un atto di
autonomia negoziale.
    Ma  puo'  anche  essere intesa, ed e' questo il secondo possibile
esito   interpretativo,  come  una  radicale  innovazione  che  abbia
trasformato  il contratto collettivo, (anche) nel settore privato, in
una fonte di diritto oggettivo.
    La  norma in esame, se interpretata nel primo senso (non modifica
la  natura  del  contratto  collettivo  che  resta  atto di autonomia
negoziale),   presenta   una   serie  di  profili  di  illegittimita'
costituzionale che si vanno ad esporre.
Violazione dell'art. 39 della Costituzione.
    E'  opportuno  ricordare  che  il  primo comma dell'art. 39 della
Costituzione:  «La  organizzazione  sindacale e' libera» si pone come
rottura   del   precedente   sistema   corporativo   nel   quale   la
organizzazione  sindacale  era  determinata  da  norme  eteronome che
prestabilivano  le categorie dei lavoratori, con la conseguenza che i
sindacati nascevano gia' ingabbiati nelle suddette categorie. Secondo
una  non contestata opinione l'art. 39 della Costituzione, come si e'
appena accennato, capovolge siffatto preesistente sistema. La solenne
affermazione «L' organizzazione sindacale e' libera» attribuisce alla
autonomia   sindacale,  la  individuazione  degli  interessi  che  il
sindacato  intende  curare  e,  conseguentemente,  la creazione delle
categorie  di'  lavoratori che va a «rappresentare». In altri termini
le  categorie  dei  lavoratori,  che nel sistema corporativo erano un
prius  rispetto alla organizzazione sindacale, a seguito dell'entrata
in vigore della Costituzione diventano un posterius.
    In  definitiva l'art. 39 della costituzione assicura al sindacato
la  facolta'  di  darsi  l'organizzazione  che meglio crede, col solo
limite  del  rispetto  dei  principi generali dell'ordinamento. Al di
fuori di questo limite deve ritenersi incostituzionale ogni ingerenza
dello Stato sull'organizzazione del sindacato.
    Ora la riforma del codice di procedura civile, nella parte che si
sta  esaminando,  contempla quale motivo del ricorso in Cassazione la
violazione  delle  clausole  dei  soli contratti o accordi collettivi
nazionali.
    Ne  discende,  imprescindibile,  la  esigenza  di  una  esaustiva
nozione giuridica di contratto collettivo nazionale cui la riforma in
esame  ricollega  peculiari  e rilevanti effetti, sia pur limitati al
campo processuale.
    E'   istruttivo  in  proposito  l'esame  della  disciplina  della
contrattazione   nel   settore   dell'impiego   presso  le  pubbliche
amministrazioni.  In  tale  settore costituisce motivo del ricorso in
Cassazione  la  violazione  delle  norme  di  una  sola  tipologia di
contratti  che  il  legislatore ha provveduto a definire con riguardo
alle  organizzazioni  stipulanti  ed  all'ambito  di  applicazione (i
contratti  collettivi  nazionali  sottoscritti  dall'  ARAN,  vedi il
combinato disposto degli articoli 40 e 64 del d.P.R. n. 165/2001). Si
e'  cosi' dettata una disciplina che per la sua eteronomia si pone in
chiaro  contrasto, per le ragioni appena esposte, con l'art. 39 della
Costituzione.
    Tuttavia  la  cennata  disciplina  puo'  superare  il  vaglio  di
legittimita'  costituzionale  perche'  il  contratto  collettivo  nel
settore   pubblico   esula   dalla   previsione   dell'art. 39  della
Costituzione in quanto funzionalizzato, come si vedra' piu' oltre, ad
un  interesse  pubblico,  e  precisamente  all'interesse  contemplato
dall'art. 97 della Costituzione.
    Tornando  al settore privato e' appena il caso di rilevare che la
qualifica - agli effetti di cui all'art. 360 c.p.c. - di un contratto
collettivo   quale   nazionale  non  puo'  ritenersi  demandata  agli
stipulanti;  altrimenti  le  competenze  attribuite al massimo organo
giurisdizionale,  cioe'  alla  suprema Corte, diverrebbero oggetto di
autonomia  negoziale, col sovvertimento dei principi fondamentali del
vigente ordinamento giuridico.
    Pertanto il legislatore che ha posto mano alla riforma del codice
di  procedura civile ha inevitabilmente delegato alla giurisprudenza,
non  avendo provveduto direttamente, di stabilire nel settore privato
la  nozione  di  contratto  collettivo nazionale e le caratteristiche
delle  organizzazioni  sindacali legittimate a stipulare contratti di
tale  natura. Ma siffatta delega, attribuendo ad una norma eteronoma,
anche   se   di  creazione  giurisprudenziale,  la  disciplina  della
organizzazione  sindacale,  si  pone,  per  le  ragioni  esposte,  in
contrasto con l'art. 39 della Costituzione.
    Ed il contrasto non finisce qui.
    La  riforma in esame avrebbe introdotto la immediata ricombilita'
in  Cassazione  per  assicurare  la  piu' sollecita definizione delle
controversie  c.d. seriali che caratterizzerebbero il contenzioso del
lavoro.  Tali  controversie  il  cui  nodo comune sia ravvisabile nel
contrasto  sulla  portata  di  una  o  piu'  norme  di  un  contratto
collettivo  troverebbero  immediata soluzione nella Cassazione che ne
fornirebbe   la   interpretazione  autentica.  In  altri  termini  il
tempestivo intervento della S.C. in sede di nomofilachia bloccherebbe
sul  nascere il proliferare del contenzioso concernente una questione
seriale.
    Tale  ratio  legis  (assai  discutibile e sulla quale si tornera'
piu'   oltre)  necessariamente  presuppone  che  i  rapporti  fra  un
contratto nazionale e contratti collettivi di livello inferiore siano
disciplinati  dal  principio  gerarchico. Si tratta di un presupposto
implicito  ma  ineludibile. Invero l'effetto deflativo perseguito dal
legislatore sarebbe sicuramente vanificato se ai contratti collettivi
di  livello  inferiore  fosse  consentito  di  derogare  o modificare
contratti nazionali.
    Anche  su questo punto e' illuminante il richiamo alla disciplina
sulla   contrattazione   collettiva   nel   pubblico   impiego   c.d.
privatizzato.
    Il   d.lgs.  n. 80/1998  e  successive  integrazioni  aveva  gia'
introdotto,  appunto in funzione deflativa, l'obbligo di decidere con
sentenza,   immediatamente  ricombile  in  Cassazione,  la  questione
pregiudiziale  relativa  alla interpretazione ed alla efficacia delle
clausole  dei contatti collettivi di comparto sottoscritti dall'ARAN.
In questo quadro, ed in coerenza con il fine deflativo perseguito, il
legislatore  ha  espressamente  sancito il criterio gerarchico per la
soluzione  delle  eventuali  anomalie  fra  contratto  di  comparto e
contratti  collettivi  di  livello  inferiore  (vedi  il  terzo comma
dell'art. 40 del d.P.R. n. 165/2001).
    Ora,   secondo   la   dottrina   dominante  che  si  e'  occupata
specificamente  della  materia,  con  l'espressione «l'organizzazione
sindacale   e'  libera»,  l'art. 39  della  Costituzione,  sempre  in
radicale   rottura  col  precedente  regime  corporativo,  ha  inteso
proclamare non solo la liberta' di organizzazione sindacale, ma anche
la  liberta'  in  ordine  alla  contrattazione collettiva intesa come
attivita'.
    Si  porrebbe quindi in contrasto con l'art. 39 della Costituzione
un  intervento  legislativo  specificamente  volto  a  limitare  tale
liberta'.  E  proprio un siffatto intervento sarebbe realizzato dalla
posizione  di  un  criterio esterno di raccordo fra i diversi livelli
della  contrattazione  collettiva,  nel  caso  in  esame  il criterio
gerarchico.
    L'art. 360  c.p.c.  si  presenta  quindi  gravemente  sospetto di
illegittimita' per contrasto con l'art. 39 della Costituzione.
Violazione dell'art. 111 della Costituzione.
    L'esame  della  recente riforma del citato art. 360 mette in luce
un ulteriore vizio di illegittimita' costituzionale per contrasto con
l'art. 111 della Costituzione.
    I  contratti collettivi, quali contratti di diritto comune, vanno
interpretati  a  norma degli articoli 1362 e seguenti c.c.; su questo
punto  l'opinione  e'  pressoche'  unanime  sia  in  dottrina  che in
giurisprudenza.  L'  interpretazione  si  concreta  nell'accertare un
fatto  storico  quale  e'  la  volonta' manifestata dalle parti nella
stipula  di  quel  determinato negozio. A tale risultato si perviene,
sempre   ai  sensi  degli  articoli  1362  ss  c.c.,  anche  mediante
l'accertamento  di  una  serie  di  fatti  secondari (i comportamenti
precedenti  e  posteriori  delle parti contraenti, la esistenza ed il
contenuto  di clausole diverse da quelle direttamente applicabili, la
esistenza  ed  il contenuto di altri accordi collettivi fra le stesse
parti,  i  termini reali e concreti - cioe' fattuali - del problema e
degli  interessi  che  le  parti hanno inteso regolare, quali possono
risultare,   tra   l'altro,  dalle  osservazioni  delle  associazioni
sindacali ecc).
    Tutti  questi  sono  elementi e strumenti dei quali l'ordinamento
prevede  la  utilizzazione  al fine di accertare la comune intenzione
delle parti collettive contraenti, anche se tale indagine deve essere
condotta  con  criteri  meno  soggettivistici  di quelli adottati per
l'interpretazione  dei contratti individuali. Ebbene la utilizzazione
di  questi  elementi  e  strumenti presuppone la loro acquisizione al
processo  mediante  apposita  attivita'  istruttoria che viene quindi
demandata  alla  Corte  di  cassazione per l'accertamento di un fatto
storico  (una  concreta manifestazione di volonta' negoziale). Quanto
meno  di  siffatta attivita' istruttoria la S.C. dovra' farsi carico,
come  se  ne  deve  far  carico il giudice di appello investito anche
dell'accertamento  del  fatto, qualora manchi o sia incompleta quella
svolta dal giudice che ha emesso la sentenza impugnata.
    Si pone quindi il grave problema di' valutare se sia in contrasto
con  l'art.  111  della  Costituzione  la  attribuzione alla Corte di
cassazione  della competenza a conoscere anche del fatto. E' evidente
che  un  eventuale  aggravio  di attivita' istruttoria a carico della
S.C.,  almeno  superati  certi  limiti,  finisce col pregiudicarne la
funzione  di nomofilachia che l'art. 111 della Costituzione ha inteso
salvaguardare.   Un   siffatto   aggravio,   superati  certi  limiti,
renderebbe  quanto  meno  insostenibile la posizione della S.C. quale
organo  accentrato  in  sede  nazionale.  E'  un  esempio  in  cui la
quantita'  influisce  sulla  qualita'. In questo ordine di idee si e'
posta  la  Corte  costituzionale che ha ritenuto non contrastante con
l'art.  111 della Costituzione la attribuzione alla S.C. di conoscere
il  fatto,  con  relativi  poteri istruttori anche vasti e penetranti
purche'  si tratti di ipotesi «.....marginali e secondarie rispetto a
quanto  ne  costituisce la competenza propria e qualificante» (in tal
senso Corte costituzionale sentenza n. 184 del 1974).
    Ora  la  questione sulla portata di una o piu' norme di contratti
collettivi  e'  ricorrente  nelle controversie di lavoro che, come e'
noto,  sono  assai  numerose;  i  pratici  del  diritto valutano tale
ricorrenza  in  percentuale  nettamente  superiore  al 50%. In questo
quadro e' ragionevole ritenere che la competenza a conoscere il fatto
sia   stata  demandata  alla  Corte  di  cassazione  in  una  ipotesi
tutt'altro  che  marginale  e  secondaria.  Ne'  vale  obiettare  che
siffatto inconveniente non sussisterebbe in quanto andrebbero rimesse
alla   Corte  di  cassazione  solo  questioni  valutate  di  notevole
complessita'; e sarebbe cosi' ravvisabile un filtro idoneo ad evitare
l'intasamento della S.C.
    Tale  obiezione,  da  alcuni  formulata e ripresa nel corso della
odierna discussione, non e' fondata.
    Innanzitutto  e'  chiaramente  smentita dalla lettera della legge
che  demanda  alla  cognizione della S.C. le questioni (senza operare
alcuna distinzione fra le stesse) relative alla interpretazione, alla
validita'  ed  alla efficacia delle clausole dei contratti collettivi
nazionali  di  lavoro. Va poi rilevato, sotto il profilo sistematico,
che,  in  ordine  alla  ricorribilita'  in  cassazione,  e' del tutto
estraneo  al  vigente  ordinamento  un  meccanismo di filtri modulato
sulla complessita' delle questioni dedotto in sede di impugnazione.
    Si  prospetta  quindi  tutt'altro che manifestamente infondata la
questione  di  illegittimita'  costituzionale  dell'art. 360  c.p.c.,
nella parte che si sta esaminando, per contrasto con l'art. 111 della
Costituzione.
Ulteriore profilo di contrasto con l'art. 39 della Costituzione.
    Giova  ricordare  che  sinora  si  e'  proceduto  ad un vaglio di
costituzionalita' dell'art. 360, n. 3, inteso nel senso che non abbia
modificato,  nel  settore privato, la natura del contratto collettivo
che continua a configurarsi contratto di diritto comune.
    Tale  interpretazione  va  ritenuta  conforma  al  c.d.  «diritto
vivente»  poiche'  e'  opinione  comune  che il contratto collettivo,
almeno  nel  settore  privato,  si inquadri fra gli atti di autonomia
negoziale.  Tuttavia,  come  e'  noto,  la  Consulta,  in ordine alle
questioni di illegittimita' costituzionale di una norma, sollecita la
ricerca  di  possibili  alternative ermeneutiche che rendano la norma
stessa conforme alla Carta costituzionale.
    In  questo  ordine  di  idee  si esplora un altro possibile esito
interpretativo  (cui  si e' gia' accennato) secondo cui la riforma in
esame   avrebbe  radicalmente  modificato  la  natura  del  contratto
collettivo  nel  settore  privato,  configurandolo  fonte  di diritto
oggettivo.
    Questa   seconda   prospettiva   ermeneutica   e',   forse,  piu'
convincente della prima per diversi ordini di considerazioni.
    Innanzitutto emerge dalla chiara lettera della legge.
    L'art. 360   c.p.c.,   come  modificato  dall'art. 2  del  d.lgs.
n. 40/2006,  prevede,  al  numero  3,  la impugnazione con ricorso in
Cassazione  per  «.....violazione  o  falsa  applicazione di norme di
diritto   e   dei   contratti   e  accordi  collettivi  nazionali  di
lavoro.....»,   cosi'   espressamente  equiparando  le  clausole  dei
contratti di lavoro alle norme di diritto.
    Siffatta     equiparazione    viene    puntualmente    confermata
dall'art. 366-bis  c.p.c.  (inserito  nel  codice di procedura civile
dall'art. 6  del  d.lgs.  n. 40/2006)  il  quale dispone che nei casi
previsti  dall'art. 360, primo comma, numeri 1), 2), 3) e 4)» (quindi
anche  nella  ipotesi  di  impugnazione per violazione di contratti o
accordi  collettivi  di  lavoro)  «.....la  illustrazione  di ciascun
motivo  si  deve  concludere  con  la  formulazione  di un quesito di
diritto».
    Se il contratto collettivo avesse conservato, pur dopo la riforma
in  esame,  la natura di atto di autonomia negoziale, lo accertamento
della  sua  esistenza  e  della  sua  portata  si  risolverebbe nello
accertamento  di  un fatto storico, vale a dire nello accertamento di
una  concreta  e  puntuale  manifestazione di volonta' negoziale. Ora
sarebbe  privo  di  senso  logico  e  giuridico,  ed  intrinsecamente
contraddittorio,  ipotizzare  un  quesito  di  diritto in ordine allo
accertamento di un fatto storico.
    Tale  illogicita' viene meno proprio se si configura il contratto
collettivo  di  lavoro  quale fonte di diritto oggettivo. Invero alle
norme  di  diritto  oggettivo,  quale ne sia la fonte, e' sottesa una
esigenza  di coerenza col complesso dell'ordinamento, sicche' la loro
interpretazione  indubbiamente  comporta  una  questione  di  diritto
idonea a sollecitare un corrispondente quesito.
    Questa  prospettiva  ermeneutica,  sulla  radicale modifica della
natura  del contratto collettivo nel settore privato, si impone anche
sotto   un   profilo   sistematico   poiche'   realizza   una   piena
omogeneizzazione  del  contratto  collettivo  nel  settore  privato a
quello  che  disciplina  il  rapporto  di lavoro dei dipendenti della
pubblica  amministrazione (esclusi quelli contemplati sia dall'art. 3
del d.P.R. n. 165/2001 che dall'art. 1 della legge n. 252/2004).
    Si tratta di una omogeneizzazione coerente col principio di fondo
che  ispira  la  riforma del pubblico impiego (introdotta dalla legge
delega  n. 421/1992 e dai relativi decreti legislativi di attuazione,
i   d.lgs.   n. 29/1993;  n. 470/1993;  n. 546/1993,  successivamente
oggetto di ulteriori rimaneggiamenti ed integrazioni, particolarmente
rilevanti  quelle  introdotte  dalla  legge  delega  n. 59/1997 e dai
relativi  d.lgs.  n. 80/1998  e  387/1998,  per  arrivare poi al T.U.
n. 165/2001,   cui   sono  seguite  ulteriori  modifiche),  volta  ad
assimilare  la  disciplina del rapporto di lavoro nel settore privato
ed  in quello pubblico, come espressamente proclamato sin dalla prima
legge delega del 1992.
    Nel  settore  del pubblico impiego c.d. privatizzato il contratto
collettivo  ha  acquisito  la natura di fonte di diritto oggettivo di
cui presenta tutti i caratteri.
    Le  sue  clausole, al pari delle norme di diritto oggettivo, sono
generali  ed  astratte,  e  si applicano al caso concreto che rientri
nella  fattispecie  da  esse  delineata;  come  le  norme  di diritto
oggettivo  sono  efficaci  erga omnes, e tale efficacia e' accentuata
dalla  inderogabilita' sia in senso migliorativo che peggiorativo per
il  dipendente,  inderogabilita'  che  comporta  la  loro  automatica
sostituzione   alle   eventuali   clausole   difformi  del  contratto
individuale.  Tutto  cio'  e', fra l'altro, ribadito dall'art. 45 del
d.P.R.  n. 165/2001  che  espressamente  stabilisce  il  principio di
parita' contrattuale.
    La  Corte  costituzionale (sentenza n. 309/1997) ha affermato che
la  suddetta  efficacia  erga  omnes  non troverebbe fondamento nella
forza  vincolante  del  contratto  collettivo, bensi' nella autonomia
negoziale  individuale;  vale  a dire che il contratto collettivo del
settore   sarebbe   applicabile   ai   dipendenti   delle   pubbliche
amministrazioni solo perche' richiamato dal contratto individuale che
fa sorgere il rapporto di lavoro.
    Ma tale argomentazione si risolve in un sofisma perche' dimentica
che detto richiamo al contratto collettivo del settore e' imposto per
legge  (vedi  ora  il d.P.R. n. 165/2001, in particolare il combinato
disposto dell'art. 2, comma 3 e dell'art. 45, comma 2), non e' quindi
espressione  di  autonomia negoziale individuale. Nessuno dubita che,
proprio  perche'  imposto  dalla  legge,  il contratto collettivo del
settore  si  applicherebbe al rapporto dei dipendenti delle pubbliche
amministrazioni  anche  se  non  contemplato  dal  relativo contratto
individuale, ed anche se quest'ultimo ne escludesse la applicazione.
    Sarebbe   del  resto  microscopicamente  contraddittorio  che  il
contratto  individuale  non  possa  derogare  a  singole clausole del
contratto  collettivo  del settore, ma nel contempo possa derogare al
suddetto  contratto collettivo, nel suo complesso, non richiamandolo,
o addirittura espressamente escludendone la applicazione.
    Inoltre  la  violazione  delle  clausole del contratto collettivo
costituisce   motivo   del  ricorso  in  Cassazione,  al  pari  della
violazione  di  una  norma di legge (vedi art. 64, comma 3 del d.P.R.
n. 165/2001). Va poi richiamato il precedente rilievo (vedi sopra) su
eventuali  contrasti  fra  contratti  collettivi  di diverso livello,
contrasti  che,  sempre  nel  settore  pubblico,  sono  espressamente
risolti  sulla  base  del principio gerarchico, il tipico criterio di
risoluzione  delle  antinomie fra norme di diritto oggettivo (vedi il
terzo comma dell'art. 40 del d.lgs. n. 165/2001)
    Inoltre   i   contratti  collettivi  nel  settore  pubblico  sono
pubblicati  nella  Gazzetta  Ufficiale  (almeno  quelli  sottoscritti
dall'ARAN  )  come  espressamente dispone l'ottavo comma dell'art. 47
del  d.lgs.  n. 165/2001;  vale quindi per essi, come per le fonti di
diritto oggettivo, il principio iura novit curia.
    E non basta.
    I  contratti  collettivi  nel settore pubblico, in quanto volti a
disciplinare   il   rapporto   di   impiego,   sono   funzionalizzati
all'interesse pubblico contemplato dall'art. 97 della Costituzione.
    E,  si  osserva  per  inciso,  proprio  per  questo esulano dalla
previsione  di  cui  all'art. 39,  e  rimangono  immuni  da  vizi  di
illegittimita' costituzionale per contrasto con detto articolo.
    Esiste   infatti  un  legame  assai  stretto  tra  la  disciplina
dell'impiego  pubblico  e  l'interesse  pubblico  al corretto operare
degli  uffici  della  pubblica amministrazione la cui funzione rimane
nell'ambito  del  diritto pubblico. Un legame assai stretto che rende
tale  disciplina funzionalizzata al suddetto interesse pubblico, come
ribadito  da  una consolidata giurisprudenza, soprattutto della Corte
costituzionale (in proposito C. cost. 9 dicembre 1968, n.124 in Giur.
cost. 1968, 2161 sa; C. cost. 7 aprile 1981, n. 52, ivi 1981, 321 ss;
C.  cost.  13  ottobre  1988,  n. 964 ivi, 1989, 4543 ss; C. cost. 18
gennaio 1989, n. 1, ivi, 1989, 3 ss; C. cost. 24 gennaio 1989, n. 19,
ivi  1989,  111  ss.  L'orientamento della Corte costituzionale viene
espresso con estrema chiarezza in C. cost. 5 maggio 1980, n. 68; ivi,
1968,  647  ss,  ove  dopo  avere riconosciuto possibile, sotto certi
profili,   una  omogeneizzazione  fra  lavoro  dipendente  privato  e
pubblico,  aggiunge  subito  dopo:  «E' ..... da chiedersi fino a che
punto  ed  in  quale  ambito  soggettivo  produca  invece  diversita'
l'inserimento  del  lavoro in una amministrazione retta dal principio
costituzionalmente  prescritto  del  buon  andamento. Tale principio,
enunciato   dall'art. 97   Cost.,   non  riguarda  esclusivamente  la
organizzazione  interna  dei  pubblici  uffici,  ma  si  estende alla
disciplina   del   pubblico   impiego   in   quanto   possa  influire
sull'andamento   dell'amministrazione.....   In   altre   parole   e'
innegabile  che  la  disciplina del lavoro e' pur sempre strumentale,
mediamente  o  immediatamente,  rispetto alle finalita' istituzionali
assegnate    agli   uffici   in   cui   si   articola   la   pubblica
amministrazione.».  Tale  orientamento  della Corte costituzionale e'
stato  ribadito  in  pronunce successive alla legge delega 23 ottobre
1992,  n. 421. Cosi' in Corte cost. 3 giugno 1999, n. 206 in Gazzetta
Ufficiale  -  serie  speciale  - n.23, la Corte costituzionale decide
della   questione   di   illegittimita'  costituzionale  della  legge
19 marzo 1990,   n. 55,   art. 15,  comma 4-septies  come  modificato
dall'art.  1,  legge 18 gennaio 1992, n. 16, che prevede l'automatica
sospensione   dalla   funzione   o  dall'ufficio  nei  confronti  dei
dipendenti  delle  amministrazioni  pubbliche  condannati,  anche con
sentenza  non  definitiva,  per  determinati  delitti di criminalita'
organizzata. li giudice remittente ritiene in contrasto, fra l'altro,
con  l'art. 97  Cost.  la  automaticita'  della sospensione; la Corte
costituzionale  esclude  il  contrasto  cosi'  motivando: «l'esigenza
cautelare  che  sta a fondamento della sospensione obbligatoria e che
il  legislatore  con  la  norma  in  esame  ha  non irragionevolmente
considerato  sussistente,  si  collega, come si e' gia' chiarito, non
gia'   alla  commissione  del  fatto,  alla  piu'  o  meno  probabile
colpevolezza  dell'imputato,  bensi'  alla  pendenza  dell'accusa, in
quanto  tale suscettibile di gettare sull'amministrazione un'ombra di
inquinamento  da parte della criminalita' organizzata.... il rinvio a
giudizio  presuppone  che  siano  stati  raccolti  elementi  tali  da
precludere  una  pronuncia  di  insussistenza  del fatto ovvero della
colpevolezza  o  della  punibilita' dell'imputato.... non puo' dunque
dirsi  che  sussista  sproporzione  tra questo livello di consistenza
dell'accusa  ed  una misura sospensiva che mira appunto a tutelare il
pubblico   interesse   dal   pregiudizio   che  la  stessa  esistenza
dell'accusa,  in  quanto  tale,  produrrebbe se l'accusato permanesse
nell'ufficio.».
    Non   si  potrebbe,  piu'  chiaramente  di  cosi',  esprimere  la
funzionalizzazione della disciplina del pubblico impiego (nel caso in
esame la disciplina attinente alle cause di sospensione del rapporto)
ai  principi  di  buon  andamento  della p.a. proclamati dall'art. 97
della  Costituzione.  Vedi  nello  stesso  senso Corte costituzionale
sent. 4  gennaio  1999,  n. 1  -  in Gazzetta Ufficiale n. 13 gennaio
1999,  1ª  serie  speciale  n. 2 - che ha dichiarato illegittimo, per
violazione  dell'art. 97 della Costituzione, l'art. 3, commi 205, 206
e   207   della   legge  n. 549/1995,  come  modificato  dall'art. 6,
comma 6-bis  del d.l. 31 dicembre 1996, n. 699 convertito in legge 28
febbraio 1997, n. 30).
    In questo quadro appare incomprensibile la affermazione, cui pure
continua  ad  indulgere parte della dottrina, secondo cui i contratti
collettivi  nel  settore pubblico non sarebbero stati funzionalizzati
all'interesse  del  buon  andamento  della  pubblica  amministrazione
proclamato  dall'art. 97 della Costituzione. Non si comprende infatti
come  sia  possibile  che,  in  tema  di  rapporto  di lavoro con una
pubblica   amministrazione,  una  disciplina  dettata  da  una  norma
generale  ed  astratta, contenuta in un provvedimento legislativo, si
ponga   in   contrasto   con  l'art. 97  della  Costituzione  perche'
pregiudica  l'interesse  pubblico  al  buon  andamento della pubblica
amministrazione, mentre la identica disciplina non comporti piu' tale
pregiudizio  per  il  solo  fatto  di  essere  dettata  da  una norma
contenuta in un contratto collettivo, sebbene con la stessa struttura
e la stessa efficacia erga omnes di una norma di legge.
    Riepilogando   i   contratti   collettivi  nel  settore  pubblico
presentano,   attesa   la   disciplina  che  li  concerne,  tutte  le
caratteristiche  delle fonti di diritto oggettivo: hanno la struttura
di  norma  generale  ed  astratta;  sono  efficaci  erga  omnes; sono
inderogabili  sia  in  meglio  che  in  peggio  per il lavoratore; si
sostituiscono   automaticamente   alle   contrastanti   clausole  del
contratto  individuale;  le  antinomie  fra  contratti  collettivi di
diverso  livello  si risolvono sulla base del criterio gerarchico; la
loro  violazione  costituisce motivo del ricorso per Cassazione; sono
pubblicati (almeno i contratti sottoscritti dall'ARAN) nella Gazzetta
Ufficiale  e vale quindi per essi il principio iura novit curia; sono
funzionalizzati   all'interesse  al  buon  andamento  della  pubblica
amministrazione proclamato dall'art. 97 della Costituzione.
    Pertanto  intendere  la  recente riforma dell'art. 360 c.p.c. nel
senso  che  abbia  radicalmente  innovato  la  natura  dei  contratti
collettivi  nel  settore  privato  configurandoli  norme  di  diritto
obiettivo, costituisce esito ermeneutico fondato, richiamate tutte le
considerazioni sopra svolte, sia sulla chiara lettera della legge (e'
ammesso  il  ricorso  in  Cassazione  per violazione di una norma del
contratto    collettivo,   e   tale   ricorso   deve,   a   pena   di
inammissibilita',  concludersi  con un quesito di diritto), sia su di
un   argomento   sistematico  cioe'  la  assimilazione  ai  contratti
collettivi nel settore pubblico.
    Cosi'  interpretato  lo  art. 360  c.p.c.,  nella parte che si e'
ampiamente  esaminata, andrebbe esente dal sospetto di illegittimita'
costituzionale, sopra prospettato, per contrasto con l'art. 111 della
Costituzione,  poiche'  la Corte di cassazione rimarrebbe giudice del
diritto, e procederebbe alla interpretazione del contratto collettivo
secondo i criteri dettati dagli articoli 12 e seguenti c.c.
    Tuttavia,  in  questa  diversa  prospettiva  ermeneutica, sarebbe
ancora  piu'  radicale il contrasto fra l'art. 360 c.p.c. e l'art. 39
della  Costituzione nella parte in cui proclama che la organizzazione
sindacale e' libera.
    Tale  norma  costituzionale  necessariamente  presuppone  che  il
contratto collettivo sia manifestazione di autonomia privata. Infatti
il  principio  che  caratterizza  la  autonomia privata e' proprio il
principio  di  liberta';  liberta'  di  scelta sia degli interessi da
perseguire  (cioe'  dei  fini), sia degli strumenti e delle modalita'
(cioe'  dei  mezzi)  con  cui perseguire tali interessi. La autonomia
privata,  quale  espressione  di liberta', trova un limite di diritto
solo  nei  principi  generali dell'ordinamento, ed un limite di fatto
costituito  dall'equilibrio  degli  interessi  contrapposti raggiunto
dalle forze contrattuali antagoniste.
    E'  agevole  sottolineare  la  rilevante portata di un intervento
legislativo  diretto  a  mutare  radicalmente la natura giuridica del
contratto  collettivo,  da  contratto  di  diritto  comune a fonte di
diritto  oggettivo. Il contratto collettivo si trasformerebbe da atto
di  autonomia  negoziale ad attivita' funzionalizzata ad un interesse
pubblico.  Infatti  ad una fonte di diritto oggettivo e' demandato di
dare  attuazione  a  norme  di  rango  superiore, e di provvedervi in
coerenza con l'ordinamento giuridico di cui entra a far parte.
    Era  proprio  la  funzione  svolta  dal  contratto collettivo nel
regime  corporativo.  Ed e' la funzione recentemente demandata, lo si
e'  visto,  al contratto collettivo nel settore dell'impiego pubblico
c.d. privatizzato.
    Certamente  funzionalizzati ad un interesse pubblico, e come tali
efficaci erga omnes, sono i contratti collettivi in tema di limiti al
diritto di sciopero. E' illuminante che la Corte costituzionale abbia
salvato  dalla  censura  di  illegittimita',  per  contrasto 39 della
Costituzione,  la  legge  che li contempla (vedi Corte costituzionale
sentenza  n. 344/1996),  e  sia  pervenuta  a  tale risultato proprio
sottolineando   la   anomalia  (cioe'  la  funzionalizzazione  ad  un
interesse  pubblico)  che,  caratterizzando  i suddetti contratti, li
pone al di fuori della previsione del citato art. 39.
    Ora  una  attivita'  funzionalizzata  ad  interessi  pubblici  e'
attivita' non libera, ma discrezionale. vale adire vincolata nei fini
e nei mezzi.
    A  questo  punto  appare evidente che l'art. 360 c.p.c., anche se
interpretato  nel  senso che abbia modificato la natura del contratto
collettivo   nel  settore  privato,  si  porrebbe  in  contrasto  con
l'art. 39  della  Costituzione.  Anzi  in  questa seconda prospettiva
ermeneutica  (a  differenza  di  quanto  avviene  nella  prima - vedi
sopra-)  il contrasto non si limiterebbe a taluni profili, ma sarebbe
radicale  perche'  colpirebbe  al  cuore l'art. 39 della Costituzione
sovvertendone  il principio ispiratore, vale a dire la liberta' della
organizzazione e della attivita' sindacale, principio che, come si e'
detto,  conferisce  a  tale  norma  la essenziale portata di radicale
rottura col preesistente regime corporativo.
    Il  sovvertimento  di  tale  principio di fondo comporterebbe una
serie  di  corollari incompatibili con la disciplina che discende dal
citato art. 39.
    Sul  punto  puo'  essere  istruttiva  la disciplina del contratto
collettivo  nel  pubblico  impiego  di  cui  si sono gia' accennati i
contrasti con la norma costituzionale in questione.
    Un   primo   corollario,   in   contrasto   con  l'art. 39  della
Costituzione,  sarebbe  la  inevitabile  esigenza dell'efficacia erga
omnes  dei  contratti  collettivi.  Infatti  non  potrebbe  non avere
efficacia  erga  omnes  una  fonte  di diritto obiettivo volta a dare
attuazione a norme di legge.
    Potrebbero   agevolmente   individuarsi   ulteriori   profili  di
contrasto  con  l'art. 39  della  Costituzione, ma sarebbe un inutile
appesantimento del discorso.
    Va  infatti  ribadito  che  il  contrasto  fra  la norma di legge
ordinaria e la Costituzione, sempre nella prospettiva ermeneutica che
si  sta  esaminando,  sarebbe  radicale,  a  tutto  campo, poiche' il
legislatore  ordinario  avrebbe  sovvertito  il  principio ispiratore
della norma costituzionale.
    Attese   le   considerazioni   svolte   appare   tutt'altro   che
manifestamente    infondata    la    questione    di   illegittimita'
costituzionale dell'art. 360 c.p.c. nella parte in cui inserisce, fra
i  motivi  del  ricorso per Cassazione, la violazione delle norme dei
contratti collettivi nazionali di lavoro.
    I  gravi  sospetti  di illegittimita' costituzionale inficiano la
suddetta  normativa  intesa  in  entrambe le prospettive ermeneutiche
sopra illustrate.
    Nella  prima prospettiva (il contratto collettivo conserva la sua
originaria  natura  di  atto  di  autonomia  negoziale)  la  norma si
porrebbe in contrasto con gli articoli 39 e 111 della Costituzione.
    Nella  seconda  prospettiva (il contratto collettivo si trasforma
in  fonte di diritto oggettivo) la norma si porrebbe in contrasto con
l'art. 39 della Costituzione.
    Non  si  ravvisano  altre possibili interpretazioni dell'art. 360
c.p.c. nella parte qui esaminata.
  Profili di illegittimita' costituzionale dell'art. 420-bis c.p.c.
A) Violazione dell'art. 3 della Costituzione.
    Lo   accoglimento  della  suddetta  questione  di  illegittimita'
costituzionale  comporterebbe  la soppressione non solo dell'art. 360
c.p.c.,  nella  parte  sopra specificata, ma anche dell' art. 420-bis
c.p.c.  la  cui  portata  si  risolve nel determinare le modalita' di
attuazione della prima norma.
    Comunque  il  citato  art. 420-bis, anche di per se' considerato,
presenta  diversi  profili  di  illegittimita'  costituzionale che si
vanno ad esporre.
Violazione dell'art. 3 della Costituzione.
    Un  primo  profilo  riguarda  il  contrasto  con  l'art. 3  della
Costituzione per irrazionalita'.
    L'art. 34  del codice di procedura civile delinea una ben precisa
nozione  di  questione  pregiudiziale;  si  tratta  di  una questione
concernente  un tema idoneo a formare oggetto di un separato giudizio
di merito.
    Invece   l'art. 420-bis   c.p.c.,   col   termine   «accertamento
pregiudiziale»,  allude ad una ben diversa nozione; e' chiaro infatti
che  non e' suscettibile di autonomo giudizio la mera interpretazione
della   clausola   di  un  contratto  collettivo.  E'  ben  nota  una
consolidata   giurisprudenza   che  ravvisa,  fra  i  presupposti  di
ammissibilita'  dell'azione  di  mero  accertamento,  una  situazione
giuridica soggettiva.
    In  questo  ordine di idee la giurisprudenza ha escluso che siano
deducibili  avanti al giudice questioni soltanto teoriche, ai fini di
una  pronuncia  dal  contenuto astratto e congetturale, quale sarebbe
appunto   la   mera  interpretazione  della  norma  di  un  contratto
collettivo  (in  tal  senso  Cass. 25 maggio 1982, n. 3198, in Giust.
civ.,  rep.  1982 v. lavoro - rapporto di, 1161); ha altresi' escluso
che  possano  costituire  oggetto delle azioni di accertamento i soli
fatti  sia  pure  giuridicamente  rilevanti  (Cass.  2 febbraio 1982,
n. 624, Giust. Civ., rep. 1982 v. procedimento civile 11).
    Ora l'art. 420-bis c.p.c. allude in definitiva ad uno dei momenti
del  complesso  procedimento logico seguito dal giudice per pervenire
alla  decisione  della controversia demandata alla sua cognizione. La
norma  isola questo momento, che attiene alla interpretazione od alla
valutazione  di  efficacia  o  di validita' di una o piu' norme di un
contratto  collettivo  da applicare al caso dedotto in giudizio, e lo
distingue  dagli  altri  momenti  che attengono allo accertamento del
fatto  concreto  cui  applicare  il  contratto  stesso,  nonche' allo
accertamento della situazione giuridica dedotta in giudizio.
    Secondo il farraginoso meccanismo delineato dal suddetto articolo
il  primo  momento si svolgerebbe interamente per conto suo, mediante
un suo autonomo iter processuale. Solo dopo che tale iter processuale
sia  stato  definitivamente portato a compimento. eventualmente dalla
Cassazione  in  sede  di  secondo  grado,  il giudice procederebbe al
secondo accertamento.
    Tale  netta  distinzione,  che puo' essere utile sotto un profilo
espositivo  o  didattico,  se  presa  alla lettera, come fa il citato
art. 420-bis,  si  risolve  in  una ingenua astrazione che travisa la
realta'. I due procedimenti sopra accennati, ben lungi dal costituire
due  compartimenti  stagni,  interferiscono  l'uno con l'altro, in un
moto  circolare,  interferenza variamente condizionata dalle concrete
vicende dedotte nella materia del contendere.
    Tutto cio' chiaramente emerge dalla esperienza processuale.
    Si pensi ad una controversia di lavoro concernente una domanda di
rivendica,  in  via  principale,  di  una  qualifica  di  due livelli
superiore  a quella riconosciuta dal datore, ed in via subordinata di
un solo livello.
    Il  giudice  nell'esame della domanda principale decide in ordine
alla  portata  della  norma  del  contratto collettivo che delinea la
qualifica   rivendicata   in  via  principale;  decide  con  sentenza
impugnabile  in  Cassazione mediante ricorso che sospende il processo
in  primo grado. Nella ipotesi di reiezione della domanda principale,
passando  alla  subordinata, sara' operante il medesimo meccanismo in
ordine  alla  norma del contratto collettivo che delinea la qualifica
rivendicata  appunto  in  subordine.  Quindi  altra  sentenza,  altro
eventuale  ricorso  in  Cassazione  con  conseguente  sospensione del
processo di primo grado.
    Un secondo esempio.
    In   ordine   alla   pretesa   del  lavoratore  ad  un  superiore
inquadramento  si  deve  accertare se una mansione, che il ricorrente
assume  di  avere  di  fatto  svolto,  connoti,  secondo il contratto
collettivo  applicabile, il superiore inquadramento rivendicato. Tale
questione  interpretativa mette in moto il meccanismo ex art. 420-bis
con la eventuale sospensione del processo di primo grado. Si accerta,
finalmente,  che  quella mansione caratterizza la superiore qualifica
rivendicata.  Si  riprende  il  processo  sospeso  ed,  a  seguito di
istruttoria,  emerge dalle risultanze processuali che quella mansione
e'  stata svolta di fatto, ma non in modo prevalente sotto il profilo
quantitativo. Sulla base di un noto orientamento giurisprudenziale si
deve  a  questo  punto  accertare se la mansione di cui trattasi sia,
sotto   il  profilo  qualitativo,  di  tale  rilevanza,  nel  sistema
dell'inquadramento delineato dal contratto collettivo del settore, da
giustificare  lo  accoglimento  della domanda attrice. Ecco un' altra
questione  interpretativa  in  ordine  alla  disciplina contrattuale;
quindi  altra  sentenza,  altro  eventuale  ricorso in Cassazione con
sospensione del processo di primo grado.
    Dagli  esempi  appena  prospettati  (e  tanti altri si potrebbero
addurre)  appare  evidente la irrazionalita' dell'art. 420-bis c.p.c.
che,  come  si  e'  argomentato,  assume  quale  suo  presupposto  un
travisamento della realta' processuale.
    Tale irrazionalita' pone la norma in contrasto con l'art. 3 della
Costituzione.  Numerose  sentenze  della  Corte  costituzionale hanno
ravvisato  nel  principio  di  ragionevolezza, proclamato dall'art. 3
della  Costituzione,  un limite alla discrezionalita' del legislatore
(vedi  Corte  costituzionale  sentenze n. 72 ed 87 del 1962, n. 7 del
1965;  n. 94  del  1966,  n. 103  del 1969, n. 190 del 1971; n. 9 del
1975, vedi infine la recente sentenza n. 58 del 2006).
B) Violazione dell'art. 111 della Costituzione.
    Dalla irrazionalita' appena denunciata discende una macchinosita'
che vizia la disciplina del processo.
    Come  si  e'  ampiamente  detto  si  tratta di una disciplina che
artificiosamente  spezzetta  il corso del processo, con intermezzi di
ricorsi  per Cassazione e sospensione del processo di primo grado, in
contrasto  col fondamentale principio di' concentrazione del processo
e di economia del giudizio.
    Tale  inutile  macchinosita' allunga i tempi di trattazione della
causa,  in  contrasto con l'art. 111 della Costituzione che sancisce,
quale  principio  di  civilta'  giuridica,  la ragionevole durata del
processo.
    Per escludere tale contrasto si e' prospettata la ratio legis, di
cui  si  e'  fatto  cenno (vedi sopra), che, attuando una piu' rapida
trattazione  delle  controversie  c.d.  seriali,  e compensando cosi'
ampiamente  lo  inconveniente  di cui si e' detto, consentirebbe alla
norma  in  esame  di superare il vaglio di costituzionalita' sotto il
profilo  appena  delineato.  Ma siffatta ratio legis e' viziata da un
travisamento  della  realta'  processuale  degli ultimi anni. Come e'
stato esattamente e prontamente rilevato dai primi commentatori della
riforma  in  esame cause seriali, in materia di lavoro, non si vedono
da  tempo  nel  settore privato, quanto meno in ambito non locale (le
ultime,  sull'incidenza  retributiva  del  valore  della mensa, e che
risalgono  a  piu'  di  dieci  anni  fa, sono state risolte con legge
apposita  che  ne  ha escluso l'incidenza). Questioni particolarmente
rilevanti  di  interpretazione di norme contrattuali non risultano in
corso. Altre questioni urgenti che meritino di essere risolte in sede
«nomofilattica» non e' dato conoscere.
    Pertanto si conferma il sospetto del vizio di incostituzionalita'
della norma in esame per contrasto con l'art. 111 della Costituzione.
C) Violazione dell'art. 76 della Costituzione.
    Ma   un   ulteriore   e   forse  ancor  piu'  grave  sospetto  di
illegittimita' costituzionale inficia l'art. 420-bis c.p.c.
    Va  ricordato  che  tale  norma  e'  stata inserita nel codice di
procedura  civile  dall'art. 18  del  decreto legislativo n. 40/2006,
attuativo della legge delega n. 80/2005.
    La  innovazione  (che configura, come si e' ampiamente detto, una
nozione  del tutto anomala di questione pregiudiziale da decidere con
sentenza   avverso   la  quale  dispone,  quale  unico  strumento  di
impugnazione,  la  immediata  ricombilita'  in  Cassazione)  e' stata
introdotta non solo in difetto di delega, ma addirittura in contrasto
con  i  principi ed i criteri direttivi enunciati dalla legge delega.
Invero  l'art.  1,  comma 3  della  legge  delega n. 80/2005 dispone:
«Nell'attuazione  della  delega  di  cui  al  comma 2,  il Governo si
atterra' ai seguenti principi e criteri direttivi:
        a)disciplinare   il   processo   di  Cassazione  in  funzione
nomofilattica.....prevedendo....   la  non  ricorribilita'  immediata
delle  sentenze  che  decidono  questioni  insorte  senza definire il
giudizio  e  la  ricorribilita' immediata delle sentenze che decidono
parzialmente  il  merito,  con  conseguente  esclusione della riserva
discorso  avverso  le prime e la previsione della riserva del ricorso
avverso le seconde......».
    E'  assai  chiaro  il  principio enunciato dalla legge delega nel
passo  appena  trascritto;  e'  il principio della concentrazione del
processo,  con  conseguente  divieto  di  moltiplicare  i  ricorsi in
Cassazione  nell'ambito  del  medesimo  processo;  vale a dire che il
ricorso  in  Cassazione  e'  ammesso  solo  avverso  la decisione che
definisce l'intero giudizio.
    L'unica ragionevole deroga a tale principio riguarda la immediata
ricorribilita'  «delle sentenze che decidono parzialmente il merito»,
cioe'  delle  sentenze  che  definiscono  solo  alcune delle domande,
mentre il processo prosegue per la trattazione delle residue domande.
Ed  e'  significativo  che  anche in ordine alle suddette sentenze il
legislatore  faccia  salva  la  facolta'  di  riserva  del ricorso in
Cassazione  per  non  pregiudicare  il  principio  di  concentrazione
processuale.
    A  questo  punto  e' agevole rilevare che le sentenze, avverso le
quali  l'art. 420-bis  c.p.c. ammette, anzi impone, la ricorribilita'
immediata  in Cassazione, non sarebbero ricorribili immediatamente in
Cassazione  ai sensi del chiaro disposto della legge delega contenuto
nel  passo sopra trascritto. E' vero infatti che le sentenze le quali
decidono   sull'efficacia   di   un  contratto  collettivo,  o  sulla
interpretazione  di  una  sua  clausola,  certamente  non definiscono
l'intero  giudizio;  lo  stesso  art. 420-bis  dispone in ordine alla
ulteriore  trattazione  del  processo.  Ma  e'  anche  vero che dette
sentenze  non  decidono  parzialmente  il  merito,  vale  a  dire non
decidono  su  una, o alcune delle domande dedotte in causa; sul punto
non   resta   che  richiamare  le  considerazioni  sopra  svolte  per
concludere   che   la   questione   dell'efficacia  di  un  contratto
collettivo,  o  della  interpretazione  di  una  sua  norma  non puo'
costituire oggetto di una autonoma domanda giudiziale.
    Atteso  quanto sopra deve ritenersi tutt'altro che manifestamente
infondata    la    questione    di    illegittimita'   costituzionale
dell'art. 420-bis  c.p.c.  anche  per  contrasto  con l'art. 76 della
Costituzione.
                   Sulla rilevanza delle questioni
    I  profili  di illegittimita' costituzionale come sopra delineati
sono rilevanti nella presente causa in cui, come si e' gia' detto, si
e'  posta  la  questione  di  interpretazione  e  di  validita' delle
clausole  di  un  contratto  collettivo  che  per  la  sua diffusione
(riguarda   l'intero   settore   metalmeccanico)  va  ragionevolmente
ritenuto   «nazionale».   Pertanto  la  questione  stessa,  ai  sensi
dell'art. 420-bis  c.p.c.,  andrebbe decisa con sentenza suscettibile
di  immediato  ricorso  in Cassazione. Contestualmente alla pronuncia
della suddetta sentenza dovrebbe disporsi un rinvio della trattazione
non  inferiore  a novanta giorni. Ed alla udienza successiva dovrebbe
disporsi  la  sospensione del giudizio di primo grado se proposto nel
frattempo ricorso alla suprema Corte.
    Invece, cancellato il suddetto art. 420-bis, il presente processo
proseguirebbe il suo corso sino alla sentenza definitiva.
    Si  deve  aggiungere  che  la cancellazione dell'art. 360 c.p.c.,
nella  parte  in  cui  prevede  quale motivo del ricorso alla suprema
Corte, la violazione di contratti collettivi nazionali, comporterebbe
automaticamente  la  cancellazione  dell'art. 420-bis  c.p.c.  la cui
portata si esaurisce nel determinare la modalita' di attuazione della
prima norma.
    E'  opportuno  osservare,  sempre  in ordine alla rilevanza delle
questioni  di illegittimita' costituzionale sopra prospettate, che la
riforma  del  codice  di  procedura  civile,  introdotta  dal  d.lgs.
n. 40/2006,  emesso  in  attuazione  dell'art.  1,  commi 2 e 3 legge
delega  n. 80/2005,  e',  in  forza  del  noto principio tempus regit
actum,  applicabile  ai processi in corso alla data della sua entrata
in  vigore.  Ne'  puo'  indurre  in  contrario  avviso  l'art. 27 del
suddetto decreto che, dettando una disciplina transitoria, dispone ai
primo  comma:  «Gli articoli 1 e 19, comma 1, lettera f) si applicano
ai  giudizi  pendenti  alla  data  di  entrata in vigore del presente
decreto». Tale norma ad una prima affrettata lettura potrebbe indurre
a ritenere che, a contrario, le altre norme del decreto stesso non si
applichino  ai  processi  in  corso  al  momento della sua entrata in
vigore.
    Ma, a ben guardare, non e' cosi'.
    L'art.   1   del  decreto  in  questione  detta  una  particolare
disciplina   sulla  appellabilita'  delle  sentenze  pronunciate  dal
giudice  di  pace secondo equita'; e la seconda parte del primo comma
del citato art. 27 dispone: «Tuttavia ai provvedimenti dei giudice di
pace  pubblicati  entro  la  data  di  entrata in vigore del presente
decreto  si  applica la disciplina previgente». Quest'ultima norma ha
senso proprio in quanto presuppone la applicabilita' della riforma in
questione  ai  processi  in  corso  al  momento  della sua entrata in
vigore.
    Ed  un  discorso  del tutto analogo vale per il secondo comma del
suddetto  art. 27 che, dettando una analoga disposizione in ordine al
ricorso  per Cassazione, recita: «Le restanti disposizioni del capo I
si applicano ai ricorsi per Cassazione proposti avverso le sentenze e
gli  altri provvedimenti pubblicati a decorrere dalla data di entrata
in vigore del presente decreto.».
    Per  completezza  di  indagine  e'  opportuno  aggiungere  che e'
ininfluente,  ai  fini  del  problema che si sta esaminando (cioe' la
applicabilita'  della  riforma  in  questione ai processi in corso al
momento  della  sua  entrata in vigore, ai sensi del principio tempus
regit  actum)  il  richiamo,  che  si  legge sempre nel summenzionato
art. 27,  all'art. 19  comma I, lettera f). Invero quest'ultima norma
disciplina  la  riunione  dei  processi,  concerne  quindi materia di
natura  amministrativa  estranea all'attivita' giurisdizionale, anche
se con essa interferente.
    E'   stato   sostenuto,   in   sede  di  discussione  orale,  che
l'art. 420-bis  sotto  ulteriori  profili  sarebbe inapplicabile alla
presente  controversia per ragioni temporali. Piu' precisamente si e'
obiettato  che  il  suddetto  articolo,  contenente  la  soluzione di
questioni  preliminari, sarebbe applicabile ai processi in corso che,
al  momento  della  sua  entrata  in vigore, si trovino, a differenza
della  presente  controversia,  ancora nella fase della prima udienza
contemplata  dall'art. 420  c.p.c.,  e  nella  quale  vanno decise le
questioni preliminari.
    La obiezione non coglie nel segno.
    Non  e'  vero,  o  almeno  non  e'  sempre vero, che le questioni
relative  alla  interpretazione  od  all'efficacia  di  un  contratto
collettivo  siano sempre e necessariamente risolte alla prima udienza
ex   art. 420  c.p.c.,  in  taluni  casi  vanno  affrontate  dopo  lo
svolgimento  di  una  attivita'  istruttoria dal cui esito dipende la
rilevanza o meno delle questioni stesse.
    Si  consideri,  per  esemplificare,  una  controversia  in cui si
discuta   sulla   interpretazione  delle  clausole  di  un  contratto
collettivo  che  disciplinano  il  calcolo dello straordinario, ma il
datore  di  lavoro  assuma,  in  via  principale che lo straordinario
dedotto  in  giudizio  in  realta'  non e' stato espletato. In questa
ipotesi,  e in tante altre analoghe che si potrebbero configurare, e'
evidente  che  si dovra' procedere alla previa assunzione delle prove
circa lo asserito espletamento del lavoro straordinario; solo l'esito
positivo   delle   stesse   rendera'   rilevante   la   questione  di
interpretazione  del  contratto  che andra' quindi discussa e risolta
ben oltre la prima udienza ex art. 420 c.p.c.
    In  sede  di  discussione e' stato adombrato un ulteriore profilo
circa  la asserita inapplicabilita' al caso in esame del sopravvenuto
art. 420-bis c.p.c.
    Secondo  questo  ulteriore  profilo  la  questione pregiudiziale,
circa  la  efficacia o la interpretazione di un contratto collettivo,
rilevante  nella  controversia in corso, e' stata decisa nella specie
prima  del 2006, secondo la normativa all'epoca vigente, non potrebbe
quindi   essere   oggetto   della  disciplina  dettata  dal  suddetto
art. 420-bis, successivamente entrato in vigore.
    In  altri  termini,  proprio  in  base  al principio tempus regit
actum,  la nuova normativa che disciplina le modalita' di risoluzione
di  una  questione  pregiudiziale,  non  sarebbe  applicabile  ad una
questione  gia'  risolta  con  apposita  ordinanza,  risolta  in modo
esplicito   od  implicito,  ma  formalmente  corretto  in  base  alla
disciplina all'epoca vigente.
    Anche questa argomentazione non coglie nel segno.
    La  questione  pregiudiziale  di  cui  trattasi  e' stata decisa,
secondo la normativa preesistente al 2006, con ordinanza suscettibile
di  essere  modificata  o revocata nel corso del processo; e comunque
destinata  ad essere confermata o revocata con la successiva sentenza
di  merito  che  decide  definitivamente, in primo grado, la suddetta
questione.
    Ebbene   proprio   questo  meccanismo  e'  stato  modificato  dal
sopravvenuto  art. 18  che  ha  voluto  escludere,  dall'ambito della
sentenza di merito, la questione di cui trattasi.
    La  sentenza di merito, proprio in base al principio tempus regit
actum,  va  emanata  secondo  l'art. 420-bis nel frattempo entrato in
vigore,  e  tale  norma  presuppone che sia gia' decisa, con apposita
sentenza,  ed  in  modo  definitivo  nel  primo  grado,  la questione
pregiudiziale  sulla  interpretazione o sulla efficacia del contratto
collettivo dedotto in giudizio.
    Sempre  in  sede  di  discussione  orale e' stata prospettata una
ulteriore  tesi  per escludere la applicazione della riforma del 2006
al presente giudizio.
    La   ordinanza   relativa   alla  interpretazione  del  contratto
collettivo  del settore ed alla sua validita' rivestirebbe natura non
di  ordinanza  modificabile  o  revocabile,  bensi'  di  sentenza non
definitiva,  come  tale impugnabile secondo la normativa preesistente
al  2006,  sicche', anche sotto questo profilo, il combinato disposto
degli  articoli 360  e  420-bis  c.p.c., non sarebbe applicabile alla
presente controversia.
    Siffatta  ulteriore  tesi  troverebbe  fondamento in una sentenza
della  S.C.  (Casa.,  sez.  lavoro,  sentenza  n. 17780 del 2003) che
esclude  la  possibilita'  di  decidere  con  ordinanza, revocabile o
modificabile  nel  giudizio di primo grado, una questione preliminare
di  merito che invece andrebbe decisa, sempre e soltanto con sentenza
non definitiva.
    Tale indirizzo, pur autorevole, non e' condivisibile per le gravi
contraddizioni in cui si avvolge.
    Si  legge  nella  summenzionata  sentenza:  «......  in  caso  di
questione preliminare di merito non idonea a definire il giudizio, il
giudice  e'  facoltizzato  a seguire due diverse strade: o si astiene
dal  decidere  immediatamente la questione, rimettendone la soluzione
unitamente  alla decisione sul merito, ma in tal caso nessun giudizio
dovra'  esprimere in relazione alla fondatezza o l'infondatezza della
preliminare,  e  si  dovra'  limitare  ad  emettere  i  provvedimenti
istruttori  necessari per il prosieguo, ossia per addivenire poi alla
decisione di merito.
    Ove  invece scelga di pronunciarsi immediatamente sulla questione
preliminare  (senza  decidere  la  causa,  perche'  il giudizio sulla
relativa   questione   non  ha  carattere  risolutivo),  la  relativa
statuizione   non  puo'  che  avere  contenuto  decisorio,  non  piu'
passibile di revoca ne' di modifica ad opera dello stesso giudice con
la sentenza definitiva, e passabile invece di passaggio in giudicato,
ove  non  impugnato  immediatamente  o con la riserva di impugnazione
differita......».
    E'  agevole  rilevare  che  non  sussiste  la  secca  alternativa
prospettata,  o  il  giudice decide subito con sentenza una questione
preliminare,  o  rimanda ogni decisione alla definizione del processo
avanti a lui.
    Si  consideri una eccezione di prescrizione idonea, se fondata, a
travolgere  lo  intero  credito  dedotto  in  causa, e tale quindi da
rendere  a  priori inutile una attivita' istruttoria. In tal caso (ed
in  altri  analoghi)  la  emanazione,  con  forma  di  ordinanza,  di
provvedimenti  istruttori necessariamente presuppone che la questione
preliminare  sia  stata  decisa,  quanto  meno  implicitamente; ma la
relativa  decisione,  ai  sensi dell'art. 177 c.p.c., ben puo' essere
adottata   in   via   provvisoria,  vale  a  dire  con  provvedimento
modificabile o revocabile nel corso del giudizio.
    La  sentenza  della  S.C.  che  si sta esaminando cosi' prosegue:
«Pertanto,  una  volta  che  il  giudice  si  sia  pronunciato  sulla
preliminare,  non  ci  si  deve  piu'  interrogare  se  si  tratti di
ordinanza o di sentenza: non puo' che trattarsi di' sentenza, perche'
sarebbe  incongruo  attribuire  valore  meramente  ordinatorio tipico
dell'ordinanza,  ovvero  efficacia  provvisoria  come  si sostiene in
controricorso,  ad  un  provvedimento  che  invece  pregiudica  e non
temporaneamente   ma  definitivamente,  la  sorte  del  processo  non
potendo,  con  la  sentenza  definitiva,  tornare  ad  esaminare (ne'
confermandola,  ne'  modificandola)  la  questione  preliminare  gia'
risolta  in  precedenza,  che  si  deve ormai dare per presupposta.».
Siffatta    perentoria   affermazione   (sorprendente   in   presenza
dell'art. 177  c.p.c. che espressamente sancisce proprio il principio
opposto, vale a dire la modificabilita' e revocabilita', salve talune
eccezioni   tassativamente   previste,   delle   ordinanze   che   si
identificano  come  tali  proprio  in  base  alla  forma)  viene, nel
prosieguo  della  motivazione,  cosi'  argomentata:  «Ed  infatti  e'
costante la giurisprudenza che afferma che, per definire la natura di
un  provvedimento  giurisdizionale,  si deve guardare al contenuto ed
alla  sostanza  di  esso  secondo  le norme di legge, e gia' non alla
forma esteriore o alla qualificazione data dal giudice......».
    E'  a questo punto evidente la petizione di principio che vizia i
due passi appena trascritti; un provvedimento in forma di ordinanza e
con  contenuto  decisorio  riveste,  guardando alla sostanza di esso,
natura di sentenza perche' non e' revocabile o modificabile; e non e'
revocabile o modificabile perche'..... riveste natura di sentenza.
    E'   opportuno,   per   sgombrare  il  campo  da  ogni  equivoco,
sottolineare che riveste natura di sentenza, qualunque diversa ne sia
la  forma  esteriore,  il provvedimento con cui il giudice si spoglia
del   processo   (ad  esempio  un  provvedimento  declinatorio  della
competenza).   Siffatto  provvedimento  riveste  natura  di  sentenza
perche'  ne  produce comunque gli effetti non essendo piu' possibile,
almeno in quel grado di giudizio, la sua revoca o la sua modifica.
    Il  cennato  orientamento  della S.C. non e' quindi condivisibile
sia  perche' in contrasto con la chiara lettera della legge (art. 177
c.p.c.),  sia  per le incongruenze che lo viziano e che si sono sopra
illustrate.
    Ed  e' opportuno altresi' rilevare che la disciplina del processo
civile,  come ricostruita dal suddetto orientamento, si presenterebbe
affetta  da  gravi inconvenienti. Il processo verrebbe ad articolarsi
in  una  serie  di  sentenze non definitive, e relative impugnazioni,
quante sono le questioni che di volta in volta si presentano, e sulle
quali,  come  si  e'  detto,  il  giudicante dovrebbe inevitabilmente
prendere posizione, quanto meno per decidere in ordine alla ulteriore
trattazione  della  controversia. Sarebbe travolto il principio della
concentrazione  del  processo  con  conseguente  inutile allungamento
della   sua   trattazione,   in   contrasto   con  l'art.  111  della
Costituzione, principio cui ha dato una specifica attuazione la legge
delega n. 80/2005, come si e' gia' sottolineato (vedi sopra).
    Si  deve  quindi  concludere  che  un  provvedimento  in forma di
ordinanza   (come   quello   emesso   nel   presente  processo  sulla
interpretazione  e  la  efficacia del contratto collettivo dedotto in
causa)  sia sempre, salvo le eccezioni tassativamente stabilite dalla
legge, revocabile o modificabile nei corso del processo.
    Pertanto anche il richiamo all'accennato orientamento della S.C.,
non  vale  ad  escludere  la  applicabilita',  al  presente  processo
dell'art. 420-bis c.p.c.
    Alla  stregua  di  tutte le considerazioni svolte le questioni di
illegittimita'   costituzionale,   come   sopra   prospettate,   sono
tutt'altro  che  manifestamente  infondate,  e rilevanti nel presente
giudizio.